Il progetto

E’ da un po’ di tempo che desidero tornare a parlare del mio lavoro. Sto vivendo un momento bello della mia attività: quello della fase progettuale. Allora mi sono detta  che forse può essere interessante raccontare cosa c’è a monte dei lavori di ristrutturazione di una casa. Sono sicura di quello che dico quando affermo che la fase progettuale è il momento più alto nell’intero processo di realizzazione di un intervento architettonico. Qualunque impresa umana, un viaggio, un incontro, il disegno di una legge, necessita di un progetto. Affinché un progetto possa essere concretizzato, le circostanze in cui trova la sua realizzazione devono restare inalterate. In tutto il tempo che si impiega per la progettazione e realizzazione, le domande alle quali questo deve rispondere non devono cambiare; come così il consenso agli obiettivi che si vogliono raggiungere, deve rimanere invariato. Quest’ultima condizione costituisce la causa maggiore di una fedele realizzazione del progetto. Personalmente curo molto la fase preliminare di ascolto dei desideri e delle idee di coloro che dovranno vivere nella nuova casa, proprio perché solo rispondendo alle esigenze espresse -e non espresse- io possa progettare in maniera buona, per poi procedere nei lavori di costruzione nel rispetto dei tempi previsti. Qualche sera fa ero ad una cena di lavoro con dei colleghi che si lamentavano del raddoppiarsi dei tempi di realizzazione dei lavori e delle infinite varianti in corso d’opera che i clienti impongono. Non condivido molto questo modo di lavorare: un progetto bene impostato non lascia spazio a dubbi ed incertezze che inevitabilmente sforano nei tempi e nei costi. Il disegno è alla base dei lavori, è il luogo di formazione, di memorizzazione e di comunicazione delle scelte formali. Ha bisogno di una sua costruzione matematica. Questo è l’aspetto che non tutti riescono a comprendere bene ed è qui che si deve lavorare per guidare la persona nella partecipazione alla fase progettuale. Il disegno, per l’architetto, assume un valore autonomo di opera -per alcuni di opera d’arte-  che può anche non vedere la sua realizzazione. Per me architetto, che creo un nuovo spazio che risponde e riunisce tutte le richieste del committente, non è fondamentale vedere la sua concreta realizzazione. L’atto creativo è già avvenuto nel disegno e  costruendo deve rispondere a quanto visto con gli occhi della mente, altrimenti è meglio fermarsi. Se questo fosse attuato da tutti i professionisti, forse le nostre città avrebbero un altro aspetto e tutti si vivrebbe meglio. Esiste quindi un significato del progetto in quanto tale che non viene messo in crisi se al progetto non segue la  sua realizzazione, indipendentemente dal guadagno economico. Può anche accadere che a un buon progetto si affianchi, nella sua realizzazione, il subentrare di una nuova esigenza o un altro fattore che in una certa misura lo modifica. Poiché il progetto è buono permette anche delle variazioni che però devono essere ben gestite dall’architetto che lo ha pensato. Quindi ci si può domandare: <<Ma si può costruire senza un progetto?>> La risposta è: << Si!>>  Si può costruire seguendo una tradizione tecnica –cioè “ispirandosi” a quanto già fatto e sperimentato da altri- come avviene per le architetture spontanee, quelle che Bernard Rudofsky chiamava “architetture senza architetti”. Con questa modalità, in un interno, si segue spesso il gusto per il bricolage, l’accostamento casuale di un insieme di materiali eterogenei. Non si ricerca la perfezione; le connessioni tra le parti sono precarie e l’effetto finale è un insieme di componenti, più che una struttura gerarchica, che elimina drasticamente le relazioni tra gli elementi. Queste costruzioni assumono un aspetto fiabesco molto interessante che, però, non tutti sanno fare;  al contrario si  rischia di avere l’effetto di un meccanismo banale, quello che io definisco “effetto magazzino”. La necessità di un progetto non può essere né superata né negata. Un’architettura senza architetti vede nel progetto uno strumento autoritario e vincolante; ma questa è una visione estremista  con una propensione per un’anarchia espressiva e per una romantica inclinazione al difforme e all’irregolare. Viviamo nella consapevolezza che qualunque realizzazione, in un certo modo, relativizza sempre il progetto da cui nasce e in qualche modo è sicuramente riduttivo rispetto all’idea originale. Così il progetto non si conclude nell’opera finita, ma prosegue crescendo con la vita  di chi vive gli spazi progettati. Ho apprezzato molto Simonetta che, pur avendo una personalità ricca e creativa, mi ha affidato la ristrutturazione della sua casa dicendomi che sentiva la necessità di una figura professionale che sapesse cogliere gli aspetti e gli elementi del suo interno degli anni ’50,  per rielaborarli  e lanciarli negli anni futuri.  Credo di esserci riuscita…





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