Design anni ’80

Si fa subito a dire “Parliamo di Design”. Si potrebbe parlate di design da William Morris alla Bauhaus… di design contemporaneo. Ma è un oceano di idee e contro-idee. Come si può parlare di un mondo in un semplice post?

Ok! Possiamo cominciare da quello che meglio si conosce, non per cultura professionale fatta in tanti anni di studio o di lavoro, ma ricordando i momenti della propria vita che sono stati testimoni di una crescita in questo fantastico mondo della ricerca della forma. L’idea mi viene suggerita da Raf che canta alla radio “Cosa resterà di questi anni Ottanta?”. Già, gli anni Ottanta: mitici? Mah!

Questo decennio ha segnato i nostri anni di studenti universitari. Marina ed io ci siamo conosciuti un 4 novembre davanti agli avvisi alla facoltà di Valle Giulia. Da quel momento la nostra vita è stata legata dall’interesse per tutto ciò che è architettura… e non solo. Noi… i nostri amici. Insieme abbiamo attraversato tutte le tendenze che hanno influenzato gli stili e le idee degli anni ’80 –new wave, high-tech, low-tech, postmodernismo, minimalismo e decostruttivismo… per dirne alcuni. Noi studiavamo, parlavamo, lavoravamo, ideavamo, fotografavamo e stampavamo, tagliavamo vestiti stravaganti… e le famiglie erano molto preoccupate. Solo la complicità di mia zia Elena, persona eclettica ed originale –per non dimenticare la sua maestria sartoriale- ci sosteneva. L’aspetto comune era quello di avere un alto grado di irrazionalità o di bizzarria ma tutte queste tendenze vivevano anche le loro contraddizioni e volutamente volevano essere estremiste. Il design degli anni ’80 portava i segni della ribellione giovanile. In esso si trovano tutte le caratteristiche della “rivolta” dei giovani: rifiuto delle vecchie strutture, eccesso di esuberanza, grande vitalità, variazione di umore, desiderio di traumatizzare gli altri, infatuazione di sé, vita notturna. Poca inclinazione a pensare ad obiettivi a lungo termine. Saremmo restati sempre giovani. Si viveva l’attimo presente e l’edonismo era più radicato della moralità. La mia generazione usciva dagli anni di piombo, dalla crisi del petrolio e dalla TV in bianco e nero. Anni difficili e si voleva riscattare l’adolescenza che ci era stata rubata. La gioia di vivere era la cosa più importante. Il design rispondeva a tutto questo, anzi permetteva tutto questo perché la nostra vita è decisa dal design. Negli anni ‘70 il design doveva avere uno stile ben codificato. Ora non più: ogni stile era bene accetto. Bastava che avesse una giustificazione psicologica. Più esattamente vivere bene era più importante della bella forma. Noi studiavamo in una facoltà che ci formava sui grandi principi della buona architettura che aveva lo scopo di migliorare il mondo. Tutto quello che il Bauhaus aveva aiutato ad emergere, al di fuori della facoltà di architettura sembrava una lingua morta, ancora utile, ma molto lontana dalla vita reale.  La mostra di elementi di arredo di Memphis ci apriva la strada ad un’estetica postmodernistica che si opponeva al minimalismo. Irrazionalità, tessuti fantasticamente belli e volutamente difficili da conservare. Il numero di opposti era infinito: passavamo da high-tech a tradizionalismo; da logica ad emotività; da astrazione a realismo. L’avanguardia sembrava essere scomparsa e veniva sostituita dallo spettacolo: il successo si misurava sulla base del numero di pezzi di arredo venduti e sui minuti di trasmissione dei media. Comunque il decennio è stato ricco di colore e creativo. La superficialità è la nota più forte. La liberazione dal funzionalismo e dal razionalismo – ora non più “alla forma segue la funzione” ma “alla forma segue il fiasco” ci raccontava Portoghesi- ha incoraggiato i designer a liberarsi dalle loro catene. Oggetti stupidi e ridicoli riempivano le vetrine ed avevano la pretesa di essere opere d’arte. In questo mondo di design siamo diventati come “zappers”: così come si cambiava velocemente canale TV, si cambiava look o orologio. Lo Swatch al polso non mancava a nessuno. “Tempo libero” di Munari sarà nel decennio successivo il simbolo della liberazione: i numeri delle ore si muovevano liberamente nel quadrante dell’orologio e non più rigorosamente allineati tutti intorno.  Non si seguivano proprie idee ma modelli di comportamento e di abitudini imposti da altri. Crediamo che le innumerevoli proposte di oggetti di design messe in commercio abbiano contribuito ad un impoverimento anziché esserne stati arricchiti. Noi oggi siamo il risultato di quello che è stato allora seminato. Le informazioni dei media sul design hanno culturalmente influenzato i comportamenti e trasformato gli oggetti del design in feticci. Indipendentemente dal suo valore utilitaristico, il design è diventato una forma codificata di comunicazione non verbale, permettendoci di giudicare i nostri compagni a colpo d’occhio e di collocarli nel loro gruppo sociale. Questo perché i mobili, i nostri vestiti, i nostri accessori sono stati acquistati non più sulla base dei nostri desideri individuali, bensì sull’impressione che vogliamo fare sugli altri. Si voleva manifestare uno stile di vita. Uscii inorridito dalla visione del  film “9 settimane e 1/2” che fotografa esattamente questa realtà e ci fece capire tanto. Nasce il culto del designer divo –arrivando alle moderne archistar- da non confondere con gli autentici designer, risultato di una valutazione eccessiva delle capacità del designer e di un impulso a produrre. I divi devono fare notizia. Questi designer per i quali le sole cose che contano nella vita sono il successo commerciale e la notorietà perderanno la loro saldezza. Noi abbiamo bisogno di buoni designer. Il designer degli anni ’50. ‘60’, ’70 mirava ad una democratizzazione –buon design per un mercato più ampio possibile-, il design degli anni ’80 ha inseguito una “aristocraticità” –oggetti cari, firmati, per una élite-. Ancora oggi l’imbarbarimento della firma ha il suo fascino sui più, numerosi, deboli. La qualità degli oggetti di design non dipende dal denaro investito. Un altro modo di vivere è possibile Unacasanonacaso n.d.r-.. ecco cosa è restato di quegli anni ’80.





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