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La Pastiera secondo me.

E’ tempo di Pastiera. Ogni anno preparo la pastiera per la festa di Pasqua da dividere con chi viene a trovarci. Da quando siamo amici è nostra tradizione fare la colazione di Pasqua con Angela Maria e Stefano… e poi con Benedetta e Matilde. E la pastiera non manca mai. E’ un tempo bello dell’anno: le piante delle nostre terrazze cominciano a germogliare, anche se hanno sofferto la neve, e la casa è inondata da una bella luce primaverile. E’ un tempo di rinascita che sembra arrivare sempre all’improvviso.

La Pastiera non può mancare. I suoi ingredienti sono espressione della vita che, nonostante tutto, ritorna nella sua ciclicità. Il suo profumo di grano e di fiori di arancio saziano la nostra anima ancora prima di averla gustata. Dire Pastiera è dire Napoli. E’ un dolce unico ed originale così come una è la Pasqua di Resurrezione. Non è un piatto “tipico” proprio perché un piatto tipico è un piatto che tutti fanno nello stesso modo. Per esempio il “Pignatiello e purpetielle” si fa con unaprecisa varietà di polipi, un tipo di pomodoro e il tegame deve essere di coccio… se no è “n’ata cosa”. Leggevo in un libro di ricette che nel momento in cui qualcuno al “Borgo Marinaro” pensò di metterci le olive nere di Gaeta, propose un piatto diverso: “Purpetielli alla Luciana”. N’ata cosa… appunto! Così come le sfogliatelle sono o quelle di Sgambati a via Toledo o quelle di Scaturchio a Piazza San Domenico. Sono identiche. Sono tipiche sfogliatelle napoletane, o se no… sono n’ata cosa.

Forse il mio essere così rigoroso in queste cose dipende proprio da questo fatto. Essere cresciuto con questa idea. Un giorno ero a cena con amici ed uno di questi, essendo a dieta, beveva Coca Cola Light sostenendo che era Coca Cola, solo senza zucchero. Quindi non era Coca Cola! Era n’ata cosa. Chiamatela con un altro nome. Ma per lui no.

La Coca Cola è unica e va bevuta dalla bottiglia di vetro e non da quella di plastica o dalla lattina, perché così è n’ata cosa. Lo stesso è per  “o’ Pignatiello e purpetielle” si fa nel tegame di coccio: o’ pignatiello, appunto.

Io la Pastiera la faccio nel ruoto che mi ha regalato la nonna Rusconi, una anziana signora che per noi era come una nonna vera. Aveva prestato questo ruoto a mia mamma, non lo volle più restituito perché quello doveva essere il ruoto in cui cucinare le future pastiere, ogni anno. In quel ruoto di alluminio. Ruoto, non tegame. Si chiama così: “esiste la parola, usiamola”. Nel libro di ricette della cucina povera napoletana “Si cucine cumme vogl’i’…”, Eduardo de Filippo non inserisce la Pastiera, e questo mi dispiace perché mi sarebbe piaciuto sapere lui come l’avrebbe preparata. “Si cucine cumme vogli’i’, io te pavo cumme vuo’ tu, ma si pavo cumme vuo’ tu, e nun magno cumme vogli’i’, io te pavo cumme vuo’ tu, ma me nn’esco e nun torno cchiù”.  Per Eduardo il cibo ha un grande valore. Nel suo teatro troviamo spesso un momento dedicato al cibo: un piatto da preparare, una tavola imbandita intorno alla quale incontrarsi, una cucina piena di tegami, pentole, coperchi e arnesi di tutti i tipi.

Ogni napoletano ha la sua Pastiera. Non esiste una ricetta tipica alla quale tutti possono fare riferimento. La pastiera è quella che fai tu. E a Napoli, a Pasqua, tutti i veri napoletani fanno la pastiera! Non esistono ingredienti obbligatori: nella costiera amalfitana ci mettono la crema pasticcera; a Benevento, il riso; a Nola i Tagliolini. C’è poi chi ci mette il cioccolato. Sembra quasi “il caffè della Peppina”. Io ho imparato dalla mia maestra: la Sig.ra Romeo. Ogni anno era un appuntamento fisso a casa sua: come un rito si tiravano fuori gli utensili che si usavano per fare questo dolce, ed ogni anno c’era qualcosa di diverso nella preparazione… anche se lei negava. Era un dolce in evoluzione. Poi tutti si scambiavano il dolce che avevano preparato, tutti si complimentavano e si congratulavano per la riuscita ma… la Pastiera più buona non era mai quella degli altri. E questo è vero! Io posso assaggiare molte pastiere, ma queste non sono mai buone come la mia. Lo dice pure Marina.

E diventa ogni anno più buona. A Marina non piacciono i canditi e così io li avevo eliminati sostituendoli con il limone trattato in una certa maniera. Era più buona di prima. Poi un anno ho sminuzzato il cedro candito ed è piaciuta di più. Un giorno mi arriva una lettera della Sig.ra Romeo che mi dà una “chicca”. Che dire: sembrava il massimo fino a quando siamo andati a trovare la nonna di Marina e un’anziana signora napoletana ci raccontava della sua gioventù di quando, per la Pasqua, la casa si riempiva dell’odore buono della Pastiera. Il segreto: un pentolino di acqua nel forno per mantenere la giusta umidità durante la cottura. Da allora faccio sempre così. Ed è vero, è più buona. Lo scambio di segreti avviene alla luce del giorno. Una volta la Sig.ra Romeo rivelò alla dirimpettaia –sempre un po’ invidiosa- il nuovo segreto. “Uh Marò! E vui accussì l’accidite, ‘sta povera pastiera”. –Volevo morire!- Non approvava la variante. Il grano va cotto per due ore nel latte dopo due giorni che è stato in ammollo. Io avrei voluto accorciare i tempi per fare prima. Il Sig.Romeo mi guardò negli occhi e mi disse: “Perché, cosa devi fare?” Zitto girai per due ore il grano nel latte.

Così, ogni anno, come la Morte e la Resurrezione, arriva la Pastiera. Poi qualcuno  -non certo io che l’ho cucinata, perché la cosa sarebbe poco delicata- rompe il silenzio e dice: “Quest’anno questa Pastiera ti è venuta eccezionale!”  e penso: perché, l’anno scorso come mi era venuta?

E poi… ma cosa ci hai messo, mia nonna ci metteva questo…, l’amica di mia mamma, Napoletana di Napoli, la fa così!…  Non c’è niente da fare! la migliore Pastiera è la mia. A Pastiera… si cucina cumme vogli’i’.

Buona Pasqua .

 





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