La leggerezza dell’essere

Propongo una riflessione. Ascolto alla radio Gianluca Nicoletti che provoca gli ascoltatori sull’abitudine che abbiamo di conservare tutto e di non riuscirci a liberare delle cose. Mi viene in mente l’immagine della Resurrezione di Francesco Salviati – sarà perché è tempo di Pasqua?- che mi piace ricordare tra le più interessanti rappresentazioni di questo mistero. Qui il corpo di Gesù ha un elegante finezza, una grazia che sembra smaterializzarlo. Ogni riferimento alla forza di gravità, che àncora i nostri corpi a terra, sembra essere vinto. Il Cristo, praticamente nudo, segna nell’aria un guizzo di leggerezza che contrasta con la goffaggine dei soldati carichi delle loro pesanti armature della vita e che, sotto il peso delle quali, vengono schiacciati a terra. In questa leggerezza non c’è superficialità ma una profonda esplorazione di sé che trova espressione, per esempio, nella leggerezza dell’autoironia. Questa è una leggerezza di chi è interiormente libero, senza fardelli, senza pesi. Un corpo i cui vestiti non causano inciampo e non servono per proporre una maschera dietro la quale nascondersi. Se si vuole essere pronti non si può essere appesantiti dalle cose della vita. Se nel cammino si vuole avere un passo veloce non si possono portare cose ingombranti. Così come non si può ingolfare di cose inutili il cuore. Tutto questo nasce dalla riflessione di Nicoletti quando racconta di aver comprato una casa a L’Aquila – il 6 Aprile è  stato il terzo anniversario del terribile terremoto – e che a causa del terremoto non usa. Questa casa non gli manca. E’ lì, può essere abitata ma, vista la condizione del territorio, non viene usata. E’ praticamente inutile. La domanda che lui si pone è :” Era necessaria?”. Evidentemente no. E da lì tutte le riflessioni su quanto c’è di superfluo nella nostra vita.

Nel mio lavoro mi imbatto spesso in questo problema. La gente chiede “spazio nella casa” per mettere “la roba”. Le nostre case sono piene di cose inutili che vengono conservate perché non riusciamo a liberarcene. Armadi pieni di vestiti che non indossiamo più e che sono pure troppi. Ridurre il guardaroba dà il via a proseguire con il resto della casa. A casa mia si chiamava “repulisti”. Era una fissazione. Il repulisti si faceva così spesso che non c’era più niente da repulistare. Questa è una vera e propria cura perché il buttare via immunizza dalla tentazione di comprare. Le abitudini di consumare vengono calmierate con questa pratica di buttare via il superfluo. Nelle nostre case, così come nella nostra cultura, c’è la paura del vuoto. Tutto deve essere riempito, mensole, mobili, pareti. “E lì cosa ci metto?”. Niente! Oppure “Mi servono più armadi per mettere le cose”. Non ammucchiare le cose, e risparmi  un nuovo armadio!

Questo Horror Vacui si riflette anche nella qualità della vita. Il tempo deve essere riempito. Non si accetta più l’idea di un autentico tempo libero. Il tempo libero deve essere riempito con un impegno, non con un piacere. I ragazzi a scuola lamentano questo: c’è il tempo per la scuola, il tempo per lo studio, il tempo per mangiare e per dormire, il tempo per il catechismo, il tempo per lo sport… ma  non hanno il tempo libero per i loro interessi. Tutto è un’ impegno. Questo tempo è per loro, ma non ne colgono il senso.

Oggi la sobrietà sembra essere la gran moda. Con la mania di Facebook e del suo veloce tam-tam la gente si scambia i contenuti dei testi “Le sfide delle 100 cose” o di “Adesso basta”. I nuovi guru propongono cose ovvie, che qualunque persona di buon senso conosce proprio perché è stata educata così e ne ha fatto un modello di vita.

Cadiamo quindi nel banale e riflettiamo: per vivere bene non occorre essere appesantiti da molte cose. Analizziamo le nostre case e riflettiamo bene su quello che abbiamo; tutto questo ci serve veramente? Si compra di tutto perché ci convincono che è necessario e forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma il problema è liberarci delle cose. Quando proponiamo un progetto il punto forte è questo: far comprendere a chi vive in un appartamento che molte cose che si posseggono non servono a niente. La nostra società ci impone certi modelli di vita: non basta un televisore, ne servono di più! La quantità di saponi e detersivi per le pulizie riempiono intere scaffalature. Nelle case piccole sono conservate cose veramente inutili che vengono giustificate con mille e una motivazione e andrebbe analizzato il perché ci si è così attaccati. Si conservano le cose come feticci; le nostre case diventano musei di oggetti anziché esserlo di pensieri e di idee. Si sognano supporti digitali per contenere migliaia di libri e avere così più spazio; spazio che verrà occupato da cose inutili. Riflettiamo bene allora su quante cose abbiamo e su quali effettivamente possiamo fare a meno. Personalmente gestisco bene le mie cose; ho la forza di togliere l’orologio dal polso e sentirmi libero dagli orari. Uso il cellulare in un modo veramente libero ed è l’unico che abbia mai posseduto. Ho una caffettiera- la moca della Bialetti- e mi basta. Vedo nelle cucine dalla gente  tre o quattro caffettiere… ma che cosa ci devono fare? Eppure anche io ho una cantina piena di cose delle quali non riesco a liberarmi. Oggetti ben conservati che mi sono stati regalati: cornici d’argento, soprammobili … che puntualmente vengono messi da parte. Lo so, un oggetto può essere legato a qualche ricordo, ma non credo sia giusto caricare gli oggetti di questa emozione.

Vivere una volta sola è come se non si vivesse affatto, e così bisogna affermare quanto facciamo! E lo facciamo ripetutamente per affermare che effettivamente abbiamo la possibilità di riprovare e di ripensare. Si torna dai viaggi carichi di oggetti per affermare che effettivamente abbiamo vissuto quell’esperienza. Mi viene in mente la mania dei miei amici americani che inviano le solite cartoline per riconfermare un viaggio che hanno compiuto decine di volte e con le stesse modalità. La memoria è qualcosa di più profondo. Un oggetto va conservato se rappresenta qualcosa di autentico per capire la nostra storia, la nostra vita e la nostra cultura. Per ripensare chi siamo, piccoli oggetti che raccontano di noi. Come quelli della stanza della memoria in “Orwell 1984”.





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