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Una casa qualsiasi

Descrivere un ambiente vuol dire descrivere un luogo in rapporto alle persone che ci vivono.

Spesso, quando mi viene richiesto un sopralluogo in appartamenti dei quali devo progettare la ristrutturazione, questi sono ancora arredati; fermi, così come il vecchio proprietario li ha lasciati. E così comincio a fantasticare con l’immaginazione sulla vita di chi ha abitato quelle stanze. Anche la descrizione di una stanza ormai disabitata può essere una descrizione ambientale, quando i particolari di questa stanza richiamano alla mente un modo di vivere, un determinato tipo di società umana.

In queste settimane passate sono stato molto impegnato con gli esami dei miei ragazzi. Tre Terze classi mi hanno fagocitato e riportato in contatto con alcuni brani dell’Antologia che, inevitabilmente, hanno rimandato la mente al blog e al bisogno di raccontare. Così una volta a casa ho rispolverato la mia vecchia antologia di Calvino-Salinari, quella con il simpatico leone malato di peste rappresentato in copertina… per chi se lo ricorda. Voglio riproporvi il brano “Una casa qualsiasi”, la suggestiva descrizione che Alberto Moravia fa di un appartamento.

L’anticamera era arredata come quelle di certe antiquate pensioni di famiglia, nei luoghi balneari: seggiole e tavola di vimini, una pianta in un angolo, nell’altro una statua di gesso (…).

Ma le seggiole e il tavolino apparivano vecchi e sgangherati, la statua, dovunque ci fosse una cavità o una rientranza, era grigia di polvere e per giunta mancava di una mano, e la pianta, della specie chiamata ficus, non aveva che un paio di foglie in cima a un lungo stelo.

Notai pure che le pareti erano bianche, ma con il sospetto della polvere dappertutto, una polvere vecchia e attaccaticcia, che negli angoli del soffitto pareva condensarsi in certe piccole ragnatele fitte e scure (…).

Vidi una grande stanza rettangolare, con quattro finestre velate da tende gialle, allineate sulla stessa parete. La stanza appariva divisa in due parti da un paio di scalini e da un arco; la parte più grande era il salotto, in cui si trovavano (…) mobili Luigi quindici, imitati dall’antico, come andavano di moda quarant’anni addietro, disposti in gruppi spettrali intorno a tavolinetti rotondi e smilzi lumi dai paralumi ornati di perline. Fin dal primo sguardo, notai le scrostature bianche dello stucco dorato, l’ombra del sudicio sui braccioli a fiorami, le macchie di umidità sui piccoli arazzi dai soggetti galanti. Ma la decadenza della casa si rilevava non tanto nell’aspetto logoro dell’arredamento, quanto in alcuni particolari quasi incredibili che parevano indicare una trascurataggine antica e ingiustificata: un lungo, stretto lembo di carta da parati, con un disegno di mazzetti e di canestrini, penzolava, per esempio, a mezza parete, scoprendo la calcina del muro grezzo; una delle tende gialle delle finestre aveva un largo strappo ineguale dai bordi lacerati; nel soffitto, addirittura, vaneggiava in un angolo un largo buco nero. (…)

Dal vano di una finestra, nel silenzio, giungevano i suoni saltellanti di una musichetta di radio. Forse perché il silenzio della casa aveva qualche cosa di gelato, udendo questi suoni mi accorsi ad un tratto che, sebbene si fosse già ai primi di dicembre, l’appartamento non era riscaldato.3

Curioso, nelle pagine seguenti delle fotografie in bianco e nero rappresentano lo Stretto di Messina con Scilla e Cariddi ed i grandi tralicci della rete elettrica. La didascalia riporta: “Ai moderni ferry-boat i gorghi dello stretto non fanno più paura; col tempo la loro attività verrà molto ridotta grazie alla realizzazione di un ponte, in corso di progettazione, che unirà la Sicilia alla Calabria”.

Era la mia antologia del 1972.

 





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