I nostri ragazzi

Bello! Un altro film che si racconta attraverso la lettura degli interni delle case.

Case abitate, ma non vissute.

I due fratelli le abitano con le rispettive famiglie. Due famiglie molto simili, ma che si presentano con scelte di vita, apparentemente, diverse.

i-nostri-ragazzi-poster copiaPaolo e Clara, con il loro figlio Michele, abitano un appartamento signorile nel quartiere Prati, a Roma. La casa è molto accogliente, quasi una evoluzione spontanea degli arredi e degli oggetti, ma tutto molto misurato e pensato da qualcun altro, dalla mente del progettista, che ha lasciato spazio all’arbitrio della famiglia di orientarsi nella scelta degli arredi nel solco da lui tracciato. Ikea, democratica e funzionale, si confronta spontaneamente con librerie di design e arte. La famiglia è felice in questa casa molto accogliente e “calda”, quasi un nido dove tutto scorre con spensierata allegria e vitalità. Una casa abitata, ma non vissuta, segna il disagio che vive latente nei suoi abitanti. La cucina, focolare domestico, non è il cuore della casa: Paolo, sempre di corsa, è votato per la sua missione di pediatra che lo allontana dalla necessaria presenza di padre; Clara prepara la cena di corsa per consumarla distrattamente, seduta sul divano, in ansia per l’inizio della nuova puntata di “Chi l’ha visto?” davanti all’enorme schermo della televisione. Michele… mangia nella sua camera, con la porta sempre chiusa, che lo isola dal resto della casa e una tazza vuota sulla scrivania comunica che tutti i pasti importanti della giornata vengono presi in solitudine, davanti allo schermo del computer “dove i ragazzi non dovrebbero stare soli perché finiranno col diventare dei delinquenti”.

Paolo, solo quando vuole capire cosa sta accadendo al figlio, lo attende seduto in poltrona, e tutti e tre dialogano, come una famiglia, per un momento autentica, prima dello scatenarsi della furia covata. Dopo una scena violenta il figlio confessa la verità.

Massimo è un affermato avvocato della Capitale. Vive con Sofia, il neonato bimbo, e con la figlia Benedetta in un bellissimo appartamento in viale Bruno Buozzi, nel quartiere Parioli. L’incessante incedere dei passi di Sofia misura la dimensione dei grandi spazi della casa. E’ quasi stancante vederla camminare al punto che si comprende bene perché, quando lascia il suo piccolo bambino a dormire in camera, e, finalmente si può fumare una sigaretta in poltrona, al pianto del bimbo manda la cameriera a controllare. I protagonisti vivono la loro casa come gli abitanti di una città, distanti tra loro che hanno occasione di incontro in piazza dove, Salotto piazza copiaconvenzionalmente, dialogano. Un bellissimo ed elegantissimo interno, “freddo” quanto basta per comunicare lo status di chi vi abita. Uno spazio alieno nel quale la famiglia si muove come fosse uno spazio urbano: qualcosa che ti appartiene ma non è pienamente tuo. Un interessante segno corre e attraversa gli ambienti quasi fosse il filo rosso della coerenza del padrone di casa. Un interno quasi in bianco e nero che viene tenuto in relazione dal colore rosso. Bellissima la fotografia di Zorini che riesce a inquadrare questa  linea relazionandola con i fatti, fino ad arrivare ad annullare la prospettiva  nel momento in cui Benedetta esce di casa, disegnando un rettangolo: lo spazio dell’agire dei protagonisti viene annullato. Massimo è coerente. Così come difende un delinquente è pronto a denunciare la figlia per quello che ha commesso, proprio perché il suo ruolo è quello di applicare la Legge. Benedetta farà la sua confessione al padre nell’elegante studio professionale,  luogo giusto per chiedere di risolvere il problema, mentre Massimo prende coscienza del prodotto della sua educazione.

Altra casa, di non minore importanza, è quella dove si svolge la festa alla quale partecipano Benedetta e Michele: autentico Paese dei Balocchi, dove tra stupidi giochi e facili intrattenimenti, i giovani si incontrano nell’illusione di una vita comoda e vissuta in modo superficiale, metafora dei messaggi che, ai nostri giorni, assillano continuamente la gioventù. Michele e Benedetta sono il prodotto dei nostri tempi: prendono ciò che serve, con un istinto primitivo, senza riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni.

In queste case, è completamente assente quello che dovrebbe essere il momento forte della giornata. Non si cena mai insieme. Non c’è quell’ora più intima della famiglia, dedicata al confronto e al dialogo per raccogliere il vissuto quotidiano.

Convenzionalmente, per mantenere i rapporti, i due fratelli si incontrano a scadenze regolari in un elegante ristorante dove, anche in questo caso, la puntualità non è rispettata e si inizia a cenare da soli, con pietanze tanto raffinate quanto ridicole. A tavola si parla del nulla: del cibo ricercato, dell’ultimo film visto, dell’odore fruttato del vino bianco… solo nella cena rivelatrice le belve, che vivono nascoste nel recondito dei protagonisti, si scatenano con reazioni incontrollate che vogliono risolvere, in tempi brevi, qualsiasi problema e rimuovere letteralmente ciò che rischia di rappresentare un pericolo.  Cosa ne pensate?





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