De visu

Leggere il post di Marina, “Progetto remoto”, mi ha spinto a riflettere su questioni legate alla necessità di proteggere il valore di una relazione autentica tra le persone, de visu, atteggiamento di avanguardia nell’attuale mondo dominato dal Web.

Un momento educativo non può essere affidato ad altro se non alla relazione, al dialogo e al confronto tra le persone. Nulla di virtuale deve sostituire ciò che dovrebbe rimanere vincolato agli autentici rapporti umani. Il Web aiuta molto a mettere in contatto persone e le competenze ma non gli si deve permettere di svuotare la nostra natura che è fortemente legata alla socializzazione, alla collaborazione e alla partecipazione. Questo è l’unico modo per costruire una società autentica.

Come insegnante, e come architetto, non riesco a fare a meno di fondere e far convivere queste due realtà nel mio essere.

Così come la scuola esige una autentica e sincera interazione tra coloro che la vivono e che si formano, così in altri campi, come in architettura, è fondamentale la relazione, la collaborazione e la condivisione tra gli individui.

La maggior parte degli uomini vive nella convinzione di avere capito tutto, escludendo i più da qualsiasi opportunità di espressione. Anche la scuola, spesso, ghettizza i ragazzi che non presentano immediati riscontri culturali, in indirizzi di studi sempre più mortificati, proteggendo in riserve speciali coloro che sembrano essere maggiormente dotati.

Parallelamente vedo che la maggior parte degli architetti si chiude in un isolamento per compiacersi delle proprie opere, della propria superiorità, sviluppando un narcisismo che li fa essere “tanti piccoli dittatori che infestano il mondo della cultura, della politica e delle arti” -G. Michelucci-.

Visito spesso siti web nei quali, i colleghi architetti, si autocelebrano e presentano i monumenti che hanno eretto per loro stessi, lontani da una autentica partecipazione.

Come ho più volte rivendicato, quando parliamo di architettura, il dibattito non si deve svolgere su argomenti estetici o tecnologici, ma sulla relazione che c’è tra le varie parti: fra i muri, fra spazi pubblici e privati.

In una casa il dibattito si articola sulle necessità della famiglia e di chi ci vivrà e, da qui, le stesse analisi si proiettano nel dibattito fra la città e le esigenze dei cittadini; fra  i fattori economici e quelli pratici.

Il nostro ruolo di educatori è fare capire attraverso il dialogo che un’opera di architettura non è privilegio di una categoria culturale; è un lavoro che può essere condiviso con tutti poiché non è una manifestazione incomprensibile e non è necessario sottoporsi ad una difficile preparazione tecnica ed estetica per capirla. L’architettura si valuta e si giudica anche personalmente, sperimentandola e vivendola in ogni sua parte.

Anche ora che sto scrivendo, avverto quanto sia complicato comunicare empaticamente cosa vuole dire per me “creare lo spazio”. Non è possibile farlo da solo, avverto la necessità di un confronto diretto, un ascolto reciproco che permetta di progettare e trasformare in spazio i desideri e le emozioni dell’altro.

Non riesco a trasmettere l’emozione che provo quando, facendo scoprire ai miei committenti la bellezza dell’azione progettuale, ottengo un interessamento nei confronti di ogni muro, della posa in opera di un rivestimento e vedere prendere consapevolezza che quel muro, quel pavimento, quel colore, riguarda direttamente la loro vita, la loro serenità e il loro benessere.

Solo dando vita a questo dialogo l’architetto non si sentirà più circondato da gente che non capisce e che non può capire.

Tale relazione non può nascere quando sono in troppi ad avere medesime competenze. A quel punto si crea un corto circuito e la progettazione non può avere seguito.

Perchè la collaborazione sia efficace occorre che ci sia la presenza di un Maestro che dia le direttive e che indichi il modo, il pensiero e che abbia il carisma di sapere cogliere, dalle discussioni del gruppo –colleghi, maestranze, artigiani-, lo sviluppo della progettazione dando  l’insegnamento su quanto fare, così da rendere il gruppo autonomo nella realizzazione dell’opera.

Nel lungo momento della progettazione e, poi, nel cantiere si maturano i rapporti di cordialità e di stima che portano alla collaborazione vera e propria. L’autentica partecipazione vive nell’intento di fare capire a chi deve capire.

Si deve fare comprendere che un muro è stato costruito, o si deve costruire in un dato modo, perché deve rispondere ad una certa funzione che non è necessariamente subordinata a preoccupazioni di ordine estetico o tecnologico. Nella progettazione vanno controllati i percorsi che gli uomini seguiranno o che sono invitati a seguire: spazi destinati al lavoro, al riposo, al divertimento, e non perdersi nella discussione sul significato trascendente di una forma. La forma è una conseguenza dell’interpretazione di fatti, sentimenti, e situazioni generali e particolari e non una premessa.

Questo è valido per tutto, anche per la scuola.

La modalità è sempre la stessa: si parte dalla considerazione dei fatti della vita e degli uomini, si medita, e si tira fuori il senso sociale e umano che poi verranno riportati in mezzo alla gente perché divengano argomento di meditazione e di dialogo per tutti.

Mi domando: come possono fare tutto questo gli architetti del crowdsourcing?

Resterò sempre legato al modo di lavorare dei grandi Maestri, uno dei quali vi invito a vedere.





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