NO EXPO

Gli animali si pascono, l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare.

Bentrovati!

Ritorno a scrivere sulle pagine del Blog dopo la breve pausa estiva. Il nostro soggiorno presso la Comunità monastica di Bose, prima, e a “U Jazzu” di Marianna, poi, mi ha dato la possibilità di riflettere su tanti aspetti della mia vita.

In un suo Wapp Marianna, parlando del suo “U Jazzu”, mi scrive: “penso che questa piccola casa, ereditata dai miei, abbia un suo pregio singolare, una sua “grande bellezza”, e l’ha ereditata proprio dalla modestia delle intenzioni dei miei, e non certo dal mio lavoro di manutenzione nel tempo, ed è quello di stabilire dei legami d’intesa e d’affetto con le persone. Chiunque passa da qui torna a casa propria con un sentimento nuovo, con un punto di vista migliorato sul mondo, ha una consapevolezza maggiore su quello che realmente serve per vivere a questo mondo.”

Rientrando nella quotidianità vengo inevitabilmente investito dalla vita che percepisco sempre più delirante. Tra le tante questioni sociali in atto, ritrovo il fenomeno Expo 2015 che sembra avere inebetito tutti. Giornali, social e radio non parlano d’altro. Mi ha inquietato constatare che anche il mondo cattolico si è mobilitato e partecipa al banchetto collettivo perché nelle sue scelte, come spesso fa, preferisce percorrere la via più larga e dritta anziché quella più scomoda e tortuosa. La pastorale si è piegata ai temi dell’Expo e perfino sui foglietti in chiesa impazza l’esibizione del logo. Leggo di iniziative editoriali che propongono riflessioni di teologi dal titolo: “Gesù era un gran cuoco”, o “Sua madre confezionava per lui piatti speciali”. Personalmente non ho mai apprezzato l’iniziativa di questa grande esposizione che trovo anacronistica, al punto di avere rifiutato le proposte culturali presentate alla mia scuola poiché non voglio collaborare nel fare diventare anche i miei ragazzi… “polli da batteria”. Mi sembra di essere tornati alla fine dell’Ottocento quando questi eventi erano di grande significato tecnico, economico e sociale mentre oggi gli si conferisce, a forza, anche un taglio etico-spirituale. Attraverso menzogne e ipocrisie, l’Expo viene indicato come portatore di valori . Mi sembra che tutti abbiano rapidamente dimenticato la corruzione che ha contaminato la preparazione di un evento che non dà la garanzia di non inquinare anche gli sviluppi futuri; si ignora la logica dominante dell’agrobusiness che è in mano alle grandi multinazionali; non si vuole vedere che lo scopo primario è quello di allestire una grande vetrina, di un magnifico spettacolo molto redditizio … naturalmente per pochi.

Mi piacerebbe scrivervi delle bellissime performance artistiche ed architettoniche che possono essere ammirate camminando attraverso i padiglioni… ma rimando questo alle numerose riviste specialistiche che se ne occupano egregiamente. Voglio scrivere, invece, un Post privo di immagini, e lasciarvi leggere ciò che Enzo Bianchi ha avuto la forza di esprimere in occasione della X Edizione del Festival dei Filosofi lungo l’Oglio il 7 giugno 2015.

Enzo Bianchi scrive così: “Vorrei collocare questa meditazione nell’attualità che stiamo vivendo. Mi riferisco alla leggerezza con cui certi battezzati e tante realtà cristiane partecipano all’evento di Expo 2015. Troppa leggerezza in questa partecipazione, che per alcuni si fa addirittura entusiasta: leggerezza dovuta ad una mancanza di discernimento di cosa realmente questo evento vuole essere, leggerezza dovuta a una “mondanità” che abita facilmente anche tra i cristiani. La mia riflessione vorrebbe dunque anche essere un richiamo alle responsabilità dei cristiani e delle chiese, affinché la speranza di cui sono portatori non sia mai annacquata, non sia contraddetta a causa del suo farsi mondana, non perda il sale che contiene e non diventi così degna solo di essere buttata via e calpestata dagli uomini. Papa Francesco, questo cristiano che sta sulla cattedra di Pietro, nel messaggio inviato ai partecipanti all’incontro “Le idee dell’Expo” (7 febbraio 2015), ha avuto la parrhesìa di mettere in guardia da una lettura meramente economica di questo evento, una lettura che guarda soltanto ai risultati economici, che ha come idolo il mercato e che, di conseguenza, chiede solo competitività, senza guardare all’esclusione e alle inequità, accettando la logica dello sfruttamento e dello scontro. Per questo ha ricordato la realtà: “C’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini del cibo sono davanti ai nostri occhi.” E la settimana scorsa è tornato sull’argomento con queste parole: “Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra che manchi la volontà di condividere con tutti. Bisogna preparare la tavola per tutti, e chiedere che ci sia una tavola per tutti”.

Del lungo intervento di Enzo Bianchi estrapoliamo due aspetti che spesso sono ritornati negli articoli del nostro Blog. Un primo aspetto èAvere rispetto del cibo”. Al riguardo non si può evitare il lamento, in particolare da parte di chi, come me, dopo la guerra ha conosciuto tempi di penuria, scarsità di pane, ed era indotto dall’educazione ricevuta a venerare soprattutto il pane. Si prestava attenzione a che non cadesse per terra e, se succedeva, ci si faceva il segno della croce; non lo si metteva mai a tavola collocandolo in modo non nobile: quante sberle ho ricevuto per avere disposto il pane capovolto o, una volta spezzatolo o tagliatolo, per non averlo tenuto davanti in modo ordinato! Rispetto per il cibo significa non avanzarne per capriccio o non lasciarne nel piatto, quasi per celebrare l’abbondanza o ostentare la ricchezza. Gli scarti, i cibi che finiscono tra i rifiuti sono una vergogna di tutto l’emisfero Nord del pianeta: ciò che si butta basterebbe a sfamare quel miliardo di persone che soffrono fame e miseria. Rispetto per il pane significa dunque lotta contro lo spreco, volontà di utilizzare gli avanzi e, con ulteriori trasformazioni, renderli dei cibi che stupiscono e rallegranoUn secondo aspetto èAbitare a Tavola”. La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola alla quale “passiamo”, non da soli ma con gli altri, va abitata. Cosa voglio dire? Che la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola ma in realtà è altrove. Oggi si sta a tavola con il giornale aperto accanto al piatto, si guarda o si legge il tablet, lo smartphone, e in molte famiglie è accesa la televisione: come siamo imbarbariti… la tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. E’ vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla è un’arte ma innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria.

Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo relazioni.





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