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a tazz ‘e cafè

Quando si dice affinità.

E’ bellissimo quando si incontra una persona e nasce una frequentazione autentica, disinteressata, e poi scopri che ti appartiene che, in qualche modo, ti assomiglia.

Gli incontri non avvengono per caso e, quando scatta l’alchimia, ci si sente come a casa.

Le anime simili si incontrano e, grazie a questa incomprensibile alchimia, ci si frequenta, si parla, si sta insieme.

E’ quasi una tradizione che Mary e Franco ci invitino a pranzo, a casa loro, quando preparano la polenta, sempre ottima. Si sta a tavola per ore e si parla, si scherza e si ride, ed ogni volta sembra consolidarsi sempre di più la conoscenza reciproca.

E’ stata in una di queste occasioni che abbiamo condiviso il nostro interesse per la ricerca di oggetti che possano raccontarci qualcosa, che abbiano la capacità di evocare in noi quanto più ci appartiene e ci caratterizza. Al di là di ogni  moda del momento, abbiamo scoperto la nostra passione per la frequentazione dei mercatini, esplorandoli alla ricerca dell’oggetto che è lì e sembra aspetti noi per essere acquistato e riprendere a fare parte di una nuova vita; rinascere e vivere nella quotidianità di una nuova casa.

Così, rincasando, alla vista di un mercatino, non ho potuto fare a meno di fermarmi e andare in perlustrazione. Il servizio da caffè, che da tempo cercavo per la nostra cucina, era arrivato. Era lì che mi aspettava, tutto in ordine, sullo scaffale tra oggetti di porcellana di ogni gusto, foggia e colore. Probabilmente la mia amica Silvana analizzerebbe con una “fantasia guidata” la fissazione che ho per questo oggetto.

Innanzitutto non poteva essere a caso. Il suo design degli anni ’70 si adatta perfettamente alla mia cucina: forma e colori sembrano essere disegnati dalla Richard Ginori appositamente.

Mi piacciono gli oggetti legati a quel periodo perché non sono solo simboli, ma arredi che raccontano la nostra storia e, soprattutto oggi, c’è bisogno di circondarsi di oggetti che sanno trasferirci contenuti emozionali.

E, poi, il caffè non può essere bevuto a caso. C’è una lunghissima tradizione che ha elaborato mille sfumature su come va gustata questa bevanda al punto che sarebbero da psicanalizzare milioni di persone. La mia cultura napoletana ha sempre fatto corto circuito con quella della mia famiglia umbra: bere il caffè è un rito che spesso vedo imbarbarito dalle pessime abitudini quotidiane in molte case. A casa della mia famiglia si serve il caffè senza piattino. E una tazzina valeva l’altra. Nessuno che valuti la forma, lo spessore della porcellana, il colore. Le tazze si rompono e decine di piattini restano depositati nelle credenze senza che se ne sia compreso l’effettivo uso. E’ per questo che apprezzai, tanti anni fa, mia suocera quando, servendole il caffè senza piattino, con fermezza mi disse che non beveva caffè senza la “soucoupe”. Con la coda tra le gambe andai a prendere il piattino e servii il caffè civilmente. Diciamolo: persi molti punti ma ero anche molto giovane.

Eppure io odiavo l’abitudine di servire senza utilizzare il piattino!

Dietro a questo oggetto si scatena una reazione a catena: Eduardo ha reso celebre la preparazione del caffè ma dava per assodato il rito del servire. Leggo il galateo per la mescita del caffè, che vuole che la caffettiera sia lucida e lustra, altrimenti si deve versare il caffe, appena uscito, in un bricco prima di servirlo. Niente di più oltraggioso: il caffè, secondo me, deve essere servito direttamente dalla caffettiera, brutta che sia, ma calda e con la quale si prepara il caffè ogni giorno. Dove? Mai a tavola: per il caffè ci si sposta in poltrona o si deve sparecchiare e servirlo a tutti nello stesso momento. Ed ora entra in scena la tazzina con il suo piattino che serve per posare il cucchiaino dopo che si è girato –pochissimo- il caffè senza toccare il fondo. Il cucchiaino non va leccato; si posa nel piattino.

La tazzina deve essere bianca per esaltare il colore caldo ed invitante della bevanda: assolutamente da evitare le tazzine colorate all’ interno e la decorazione non deve svilire alla vista il colore del caffè. Pertanto la forma, di tazza e piattino, deve essere elegante ma non eccessivamente ricercata, per non distrarre dal contenuto e conservare i requisiti tecnici necessari a garantirne elevate performance di resistenza e resa del caffè.

Lo spessore della porcellana deve essere quello giusto: quanto basta per trasmettere una sensazione di perfetta igienicità e offrire un piacevole contatto alle labbra.

Le tazzine che ho finalmente trovato sono intriganti perché il designer, affermando la voglia di spiazzare, di stupire e di divertire di quegli anni, ha creato un manico ergonomico che impedisce alle dita di toccare la tazzina, evitando il rapido raffreddamento del caffè ed eliminando l’inopportuno brutto gesto di alzare il mignolo.

Lo zucchero! Si o no? Il caffè andrebbe bevuto amaro ma è meglio berlo con quel poco di zucchero che smorza un po’: non va girato, ma appena mosso affinché, bevendolo, alla fine si assapori il dolce come ci ricorda Roberto Murolo nella magnifica canzone “A tazz ‘e cafè” nel cui testo paragona i modi amari della sua corteggiata, alla tazza di caffè:

Ma cu sti mode, oje Briggeda,

tazza ‘e café parite:

sotto tenite ‘o zzuccaro,

e ‘ncoppa, amara site…

Ma i’ tanto ch’aggi’ ‘a vutà,

e tanto ch’aggi’ ‘a girà…

ca ‘o ddoce ‘e sott’ ‘a tazza,

fin ‘a ‘mmocca mm’ha da arrivà!

Zucchero o non zucchero, cucchiaino o non cucchiaino, il piattino ci vuole sempre; non fosse altro per completare il coinvolgimento dei cinque sensi nel rito del sorseggio del caffè: vista, odorato, gusto, tatto e… udito quando, riponendo la tazzina nel suo piattino, emette l’inconfondibile suono.

Ah! Dimenticavo: quale miscela usare? Come saggiamente disse la mia cara collega Mariarosaria, con il suo tono di voce elegante e napoletanamente musicale: ”Esclusivamente Kimbo”.





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